Rivisto di nuovo questo bel film … che ha fatto sempre lo stesso effetto!
Rendez-vous alla stazione tra un cane e il suo padrone.
Favola di maniera e lacrime di Lasse Hallström
Hachi è un cucciolo di razza Akita perduto sulla banchina di una stazione da un facchino sbadato. Approdato in America dal lontano Tibet, Hachi è raccolto dall’abbraccio amorevole di Parker Wilson, insegnante di musica ispirato, marito e padre esemplare. Vincendo le resistenze della moglie, Parker lo accoglie nella sua casa e nella sua vita, scandita dai treni, quello delle otto e quello delle cinque. Hachi, deciso a non perdersi un respiro del suo padrone, lo accompagna ogni mattina al binario e lo attende ogni sera nel piazzale della stazione. Tra una partita degli Yankees e una pallina da baseball mai recuperata, Parker e Hachi condividono il divano, la vasca da bagno e le stagioni. Un avvenimento traumatico interromperà quel quotidiano (stra)ordinario ma non piegherà la fedeltà di Hachi verso l’impegno preso. Aspettare il ritorno e le carezze di Parker.
Lasse Hallström è approdato da tempo a una maniera cinematografica dai toni ovattati, persino quando si impegna in “maledetti imbrogli” (The Hoax), un cinema dissolto frequentemente in una cornice storico-ambientale astratta (Chocolat). Hachiko non fa eccezione, ribadendo l’accento da favola e la caratterizzazione manichea dei personaggi. Al centro del film e di una produzione da cartolina illustrata c’è il ritrovamento di un morbidissimo cucciolo Akita “aperto al dialogo” col quieto professore di Richard Gere. Fedele nello svolgimento alla vera storia di Hachiko e del suo padrone, accaduta in Giappone nel 1925, lo sviluppo melodrammatico del film ruota attorno alla relazione tra il cane e l’uomo, accompagnando la loro reciproca esplorazione. Difficile trattenere il pianto davanti al desiderio ardente di Hachi di stare con Parker, di cui soffre la lontananza, accresciuta o ridotta dalla corsa di un treno. I suoi pellegrinaggi in cerca dell’uomo si aprono all’infinito e smettono di parlare, come il film, con la dipartita del protagonista. Da questo momento Hachi è solo in scena a reggere credibilmente e sorprendentemente il dolore del suo personaggio e il procedere della narrazione. Richard Gere si conferma interprete limpido e appagato di e dentro un cinema che si porge con dolcezza e sentimentalismo allo spettatore, dispensando “religiosamente” i principi basilari del vivere civile e del rispetto. Hallström, stringendosi attorno al suo cucciolo insieme alla comunità che aveva guardato con imbarazzo alla relazione uomo-animale, vince l’anestesia del sentire più vero, equilibrando il modo di vivere degli uomini con quello naturale, ricongiungendo il cielo alla terra, perché l’otto (hachi, appunto) per i giapponesi è un segno fausto della volta celeste, il simbolo di infinito e di infinita fedeltà.